Carissime lettrici di Fashion Art Break,
nei giorni scorsi avrete sicuramente sentito parlare della Convenzione
di Istanbul che rappresenta il primo strumento di diritto
internazionale legalmente vincolante che «crea un quadro giuridico di
riferimento completo per combattere la violenza contro le donne»,
focalizzando la sua attenzione sulla prevenzione della violenza domestica, la
protezione delle vittime e la persecuzione dei rei.
Ebbene, anche se la Convenzione non
sarà esecutiva fino a quando non sarà firmata da almeno dieci Stati di
cui otto devono essere membri del Consiglio d’Europa, è una esigenza che se ne
parli, se non altro per dimostrare a tante vittime silenti che il mondo è
almeno consapevole della loro esistenza.
Se anche nella emancipata (?) Italia esiste una percentuale
raccapricciante di violenza sulle donne e di femminicidio, nella splendida terra
di cui Istanbul è capitale la condizione reale delle donne presso
l'istituzione della famiglia non ha previsto uguaglianza adeguata fra gli
uomini e le donne. Ancora oggi, il marito è il capo della famiglia indiscusso e
prevaricatore.
Generalizzare sia nella demonizzazione che nella
idealizzazione è sempre un'operazione fallace, tuttavia oggi voglio raccontarvi
alcuni sprazzi della mia esperienza in Turchia che mi ha lasciato dentro un segno
forte, scatenando una serie di riflessioni e rigurgiti femministi.
La Turchia è una terra bellissima e solo in parte per la sua
carica estetica.
La sua forza è nel misticismo che s'insinua tra i lembi di
nuvole al tramonto, nei richiami alla preghiera che si levano dai minareti, tra le polveri delle spezie, nel lezzo di alcuni mercati
popolari e nello sguardo schivo dei passanti.
Scesa dalla nave col mio vestitino a fiori blu, presi un taxi a Izmir e cominciai a comunicare (Dio sa solo come) con il tassista che conosceva 3
parole d'italiano e mezza d'inglese.
Tra gesti e sguardi lui capì che avrei
voluto visitare una moschea. Quella più piccola e più indifesa
dall'assalto dei turisti. Fu così che mi ritrovai davanti a donne col capo
coperto da foulard che mi invitarono a coprire i piedi e il capo con indumenti
salvifici che avevano lì a disposizione.
L'odore era quasi nauseabondo, lo ammetto.
Eppure per me fu un privilegio entrare nel loro silenzio e lasciarmi
trascinare, inconsapevole, da preghiere incomprensibili per lingua e silenzio.
Lì pregai il mio Dio, come non avevo fatto mai in una chiesa cattolica e aspettai che la
luce esterna filtrasse nella moschea fino ai miei occhi prima di alzarmi e uscire fuori per
lanciarmi nel caos.
La tappa successiva sarebbe stata il mercato di Izmir: poco
coreografico, tanto popolare.
Accesi la mia sigaretta con disinvoltura, mentre il tassista
mi seguiva, da cicerone, consapevole di un guadagno extra. Camminavo e non
vedevo donne, se non venditrici avvolte in stoffe nere. Di uomini, invece, ce
n'erano a iosa. Alcuni oziavano su sedie di plastica tra i sentieri del
mercato, altri ancora vendevano ninnoli, spezie, cozze e grossi taralli
irresistibili.
I loro sguardi erano fissi su di me, ma cominciai ad
accorgermene dopo un po' di tempo. Quando guardai il tassista/cicerone per
chiedergli, con un solo cenno, il motivo di quell'interesse cupo, lui mi indico
le spalle e la sigaretta. Avevo sfidato il loro pudore. Li avevo offesi e, cosa
ancor peggiore, avevo offeso le poche donne che subivano la mia vista.
Buttai la sigaretta e, un po' stranita, continuai a fare il
mio shopping, innamorata di ciotole dipinte a mano, sciarpe,
pantaloni ampi, lampade e spezie.
Poi, afflitta dal caldo e dalla sete, chiesi al cicerone
turco dove poter bere una birra ghiacciata. Lui non rispose. Lo chiesi ancora,
non risparmiandomi in gesti e goffe traduzioni inglesi. Lui non rispose. Al mio
terzo tentativo prese il suo smartphone, scrisse una frase e lasciò che il
traduttore elettronico me la consegnasse comprensibile in un divertente italiano. In realtà
di divertente non c'era proprio nulla. Ancora un'altra mia gaffe. Ancora una
mia onta alla loro cultura.
Non è buono che una donna bere birra.
Messaggio
ricevuto.
Non ho mai avuto consapevolezza di essere una donna come
quel giorno.
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